Kanye West – Yeezus: la recensione

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Kanye West è da sempre sborone e Kanye-centrico. Fin dagli esordi, l’artista e produttore di Atlanta si è contraddistinto per i suoi modi sgarbati, la sua swag da principino e un’autoreferenzialità imbarazzante: dalla sua, in ogni caso, ha sempre avuto un talento straordinario, che l’ha fatto diventare prima uno dei produttori più in voga della scena hip hop e poi un rapper da milioni di dollari. Tutti i riconoscimenti che si è meritato nel corso degli anni devono avergli dato ulteriormente alla testa, visto il concept dell’ultimo disco, uscito il 18 giugno scorso: parliamo di Yeezus, che lo vede novello messia del rap, immagine al quale l’artista era già legato.

Kanye West si presenta ai suoi fan in una veste ancor più spocchiosa del passato, come divinità una e trina pronta a dispensare rime al vetriolo dall’alto dei cieli: più che un nuovo Gesù, tuttavia, Kanye ci è sembrato un nuovo Icaro, sfracellatosi malamente al suolo a causa della sua ambizione.

Yeezus non è minimamente comparabile al suo predecessore My beautiful dark twisted fantasy, osannato da pubblico e critica, che aveva portato una vera ventata di freschezza al panorama black internazionale, con le sue atmosfere inquietanti e dei testi davvero notevoli (due pezzi su tutti, Monster e Runway): al contrario, Yeezus è un disco sbrodolone e esagerato nel quale, a partire da alcune produzioni di buon livello, si innestano rime povere e ripetitive e idee poco accattivanti.

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Andando per ordine: il disco si apre con alcuni pezzi piuttosto interessanti come Oh Sight (prodotta dai Daft Punk), che all’interno di una base “da videogame anni ottanta” inserisce sprazzi random di gospel, e la trascinante Black Skinhead, pezzo dal ritmo incalzante in stile M.I.A. che vanta uno dei ritornelli più belli dell’album (Four in the morning, and I’m zoning, They say I’m possessed, it’s an omen, keep it 300, like the Romans, 300 bitches, where’s the Trojans?). Qualcosa inizia a scricchiolare già con il secondo singolo I am a God, nella quale l’artista si sente in diritto di conversare con Dio in maniera sinceramente ridicola (I just talked to Jesus, He said, “What up Yeezus?”, I said, “Shit I’m chilling).

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La seconda parte del disco, per fortuna, ci riporta con i piedi per terra con le sue tracce migliori, come New Slaves (dedicata al ruolo dei nuovi parvenu di colore, autocritica al suo stesso entourage), Hold my Liquor, che in un climax elettronico molto daftpunkiano racconta di alcolismo e solitudine, e infine la perla Blood on the leaves, canzone d’amore e dolore impreziosita da un raffinato sample di Nina Simone.

Il resto del disco, pur con qualche idea valida (vedi il ritorno alle origini r&b di Bound 2), si sviluppa su una serie di pezzi deboli e molto deludenti, come l’insipida Guilt Trip, la sperimentazione dancehall di I’m in it o Send it Up, tutta soldi, club e prostitute.

Resta comunque apprezzabile la voglia di osare dell’artista, che in questo lavoro ha cercato in tutti i modi di affrancarsi dal passato e proporre un nuovo genere basato sulla contaminazione fra il rap e i suoni più sperimentali in circolazione: se dietro a tutto questo c’è la convinzione di essere dio sceso in terra, tuttavia, gran parte del fascino del progetto si perde per la strada.

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È ora che Kanye West scenda dal pero e si renda conto che come lui ce ne sono (e ce ne sono stati) a decine e che molti altri ne arriveranno, pronti a rubargli un presunto scettro di re dell’hip hop che probabilmente non ha mai posseduto: in breve, Yeezus non è un capolavoro e lui non è dio. Amen.

 

Tracklist

01- Oh Sight

02- Black Skinhead

03- I am God

04. New Slaves

05- Hold my liquor

06- I’m in it

07- Blood on the leaves

08- Guilt trip

09- Send it up

10- Bound 2

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