Kendric Lamar – To pimp a butterfly: recensione

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Lo so, arrivo in ritardo su To pimp a butterfly di Kendric Lamar, ma vi giuro che ho i miei ottimi motivi. Ci sono per me voluti almeno 6 ascolti per decidere di prendere finalmente in mano la penna virtuale per quello che tutti, ma proprio tutti, definiscono come il disco rap dell’anno, se non addirittura del decennio. È stato una decisione faticosa, e ancora non sono sicuro che sia quella giusta.

Kendric Lamar viene da Compton, uno dei quartieri più malfamati di Los Angeles nel quale o ti fai rispettare, o muori; un po’ come diceva 50 cent (anni luce dal suo stile, puramente West coast) diventa ricco o muori provandoci, e anche se Lamar è fortunatamente vivo e vegeto questo non significa certo che il processo per arrivare alla fama sia stato tutto rose e fiori. Al contrario, Lamar ha sofferto di pesante depressione, e persino di istinti suicidi (raccontati in un pezzo clou del disco, “u“). L’album stesso era nato con il titolo Suicidal Weakness, per poi virare totalmente verso l’imprevisto riferimento entomologico delle farfalle che in realtà indica anche un micidiale tipo di coltelli.

To pimp a butterfly è un disco complesso, dicevo, tanto che lo sto ascoltando anche adesso (è l’1 di notte) e ancora non riesco a comprenderlo fino in fondo, anche se dopo tutto è normale visto che dietro i suoi testi (non proprio espliciti per un nerd italiano che nel ghetto non ha mai vissuto) si nasconde un universo fatto di droga, sofferenza, depressione e lotta per la vita. La sua figura di King Kunta del quartiere vuole presentarsi come rappresentazione di quel tipo di rapper che l’hanno fatta, sconfiggendo la prigione, l’eroina e/o un suicidio prematuro.

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Non è facile essere Kendric Lamar (ce lo racconta nel primo singolo R&B I “ne ho passate tante, processi tribolazioni…ma ho conosciuto Dio”) ma forse è propio l’esistenza in generale ad essere un casino: l’amore che ti costringe ad entrare dalla porta sul retro (niente battute becere, se ne parla in “Completion“), il risentimento che ti porta alla follia (“Resentment that turned into a deep depression Found myself screaming in a hotel room” canta in Mortal men), le contraddizioni del ghetto (Hood politics) sono tutte tematiche centrali dell’album che in molti punti suona più come un’accorata autobiografiaa che come un disco rap.

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To pimp a butterfly è inoltre un lavoro che racchiude in sé il meglio del rap e dell’R&B degli ultimi anni: io personalmente ci ho sentito dentro la classe di Common (Be sembra essere un grosso punto di riferimenti), Mary J. Blige e ovviamente i migliori lavori del rap Made in West Coast di Snopp Dogg, special guest nella stupenda Institutionalized. A mio modesto parere, sono proprio questi elementi a dare un tocco di originalità in più all’album, facendolo suonare come un classico fin dal primo ascolto.

Devo dire che sono un po’ combattuto sul fatto che questo disco sia davvero il migliore dell’anno ma, in ogni caso, una piccola grande certezza ce l’ho: non sono per niente d’accordo con la frase “every nigga is a star” che apre il pezzo Wesley’s Theory. Se però è vero che di “Negri” (passatemi il termine) con la N maiuscola ce ne s’è solo uno sui diecimila [cit], questo potrebbe decisamente essere Kendric Lamar .

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how to pimp a butterly kendric lamar cover

Tracklist:

1. Wesley’s Theory ft. George Clinton and Thundercat
2. For Free? (Interlude)
3. King Kunta
4. Institutionalized ft. Bilal, Anna Wise, and Snoop Dogg
5. These Walls ft. Bilal, Anna Wise, and Thundercat
6. u
7. Alright
8. For Sale? (Interlude)
9. Momma
10. Hood Politics
11. How Much A Dollar Cost ft. James Fauntleroy and Ronald Isley
12. Complexion ft. Rapsody
13. The Blacker the Berry ft. Assassin
14. You Ain’t Gotta Lie (Momma Said)
15. i
16. Mortal Man

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